Guarda il lato positivo
WYOBRAŹ SOBIE
Skawina | Polonia
Non mi piace la tua domanda. Cosa significa “avercela fatta”?
Se confronto la mia situazione con quella delle ragazze del mio quartiere a Skawina ... è vero che alcune di loro sono già morte o si trovano in situazioni difficili. Quindi si potrebbe anche dire che ce l'ho fatta.
A volte mi dico tra me e me: “Aneta, non esagerare. Hai una bella relazione, hai figli - anche se ti avevano detto che non ne avresti mai avuti - hai elaborato il tuo passato in milioni di modi diversi, ora stai insegnando ad altre persone come evitare alcuni errori; quindi va bene, no”!?
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Quando compii 22 anni scoprii di avere un tumore, ovaie e tube di Falloppio da rimuovere. Niente bambini. Da un punto di vista psicologico, dopo aver tirato su quattro sorelle è come se il mio corpo non volesse avere altri figli. Poi una gastroscopia e un altro medico che mi disse che avevo l'esofago e la schiena di un uomo di 65 anni che solleva pesi tutto il giorno. Poi il cardiologo, che continuava a chiedermi che tipo di sport estremo facessi, perché ho un'enorme efficienza cardiaca. Potrei correre maratone.
Il corpo registra tutto.
Non solo il mio. Fu il corpo di Dawid, mio figlio, che mi costrinse a dare uno sguardo alla mia vita, a rallentare. Iniziò con una malattia autoimmune. Poi arrivarono i tic. Correvo a destra e a manca da tutti i tipi di dottore per trovare un motivo medico, era più facile da accettare per me. Il momento in cui ho dovuto inserire sul motore di ricerca “psicologo a Cracovia”, in cerca di un dottore per me, è stato uno dei peggiori della mia vita. Perché ho dovuto ammettere: ho bisogno di aiuto.
I tic di Dawid sono scomparsi, insieme alle altre malattie. Ha iniziato a ridere, a muoversi e comportarsi diversamente. E il momento in cui ha gridato per la prima volta in vita sua – non era in grado di imporre limiti. E' stato solo allora che mi sono resa conto di quanti problemi gli abbia causato. Solo perché non avevo elaborato la rabbia, non l'ho permessa in casa, l'ho rimossa anche da mio figlio. Credevo che il passo dalla rabbia alla violenza fosse troppo breve. E' che volevo fortissimamente non avere alcun tipo di problematiche in casa nostra. Il fatto che Dawid ha smesso di ammalarsi è stato un momento di svolta; mi sono detta: “Okay, ho fatto un casino, ma sono riuscita a correggere la situazione. Adesso ne correggerò altre”.
Non solo nella mia famiglia. Ecco perché è stata creata la Fondazione.
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Nella versione più superficiale dico sempre che questa è la conseguenza di una crisi di mezza età, la necessità di scappare da una multinazionale e fare qualcos'altro nella vita. Nella versione più profonda, la cosa va in dietro ai tempi in cui avevo 16 anni. Non ricordo se fu mio padre a cacciarmi di casa o fossi stata io a sbattere la porta. Ricordo che era inverno. Corsi fuori in maglietta, nella neve, con una giacca in mano.
Quando entrai a casa del mio fidanzato di allora sua madre mi fece solo due domande:
- Hai litigato con tuo padre?
Dissi di sì.
- Puoi tornare?
Dissi di no.
Mi preparò un letto. Mi preparò la colazione la mattina. Quando tornai a casa il giorno dopo e sentii mio padre urlare che sarei potuta entrare solo in ginocchio, potevo dire no. Sapevo di avere un posto dove andare.
È stata una delle cose che mi aiutarono di più, sentivo che non avrei dovuto più sopportare la faccenda. Lui non aveva più potere su di me. La cosa mi diede forza. Cosi capii che un bambino che fugge di casa in una situazione del genere deve avere un posto dove andare. Promisi a me stessa che avrei creato un posto del genere, un giorno.
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Non parlavo mai di quello che accadeva in casa, nemmeno con i miei amici.
A parte una volta. Avevo forse 17 anni. La sera prima c'era stato un massacro in casa. Andai dall'insegnante per dirle che non ero preparata per il compito in classe. Ero abituata a confrontarmi. Mi misi davanti a lei, sulle scale, e biascicai qualcosa per giustificarmi. Avevo un trucco pesante in modo che nessuno potesse vedere i lividi. Mi disse subito: “Tuo padre ti picchia”. Fu un tale shock, l'aveva capito. Non ci fu nessun compito quel giorno, nessuno lo fece. Andammo dal pedagogo. Tutt'ora penso che quella conversazione non ebbe alcun senso. Mi suggerì che, visto che mio padre aveva problemi con l'alcol, magari avrei potuto passare più tempo con mia madre. Risposi che anche mia madre aveva problemi con l'alcol. Forse mia nonna e mio nonno avrebbero potuto passare più tempo con me... Risposi che anche la nonna e il nonno avevano problemi con l'alcol. Zia, zio, cugino? Tutti avevano problemi con l'alcol. Alla fine mi chiese: “Come posso aiutarti”? La pregai di organizzare pasti gratis per le mie sorelle minori. Non riuscivo a di dire che avevo bisogno di qualcosa. Ma mi era già stato insegnato a chiedere aiuto per gli altri, mi era più facile.
Tutta la questione si dissolse nel nulla perché il coordinatore della mia classe disse che non poteva essere vero, ero una studentessa troppo brava e ridevo troppo spesso. Il problema non poteva essere così serio.
Ricordo ancora queste parole: “Sicuramente non è tanto seria”.
Tuttavia, il fatto che questa insegnante l'abbia notato e che in qualche modo se ne sia presa cura – arrivò pure a scusarsi per non aver potuto fare di più - fu importante. Mi diede forza, un altro po' di forza.
Anche osservare altre realtà mi diede molto. Vedere che le cose possono essere diverse. Quando avevo 8 anni mi svegliavo un'ora prima, andavo a casa di una mia amica, anche se sapevo che tutti dormivano ancora lì. La prima volta bussai, sua madre mi fece entrare e disse che era ancora presto. Risposi che avrei aspettato. Mentre ero seduta in sala osservavo cosa succedeva. Vidi che la mia amica aveva già i vestiti pronti da mettere, che sua madre le preparava la colazione. Vedevo che esisteva un mondo diverso dal mio.
Questo mi infuse speranza. Non è successo a me, ma non importa. Esiste.
Ho sempre creduto che tutto accada per un motivo. Che Dio mi ami, è solo una lezione da imparare. Ci sarei riuscita con l'aiuto di Dio e ne avrei scoperto il lato positivo.
Sono ossessionata dal concentrarmi sul lato positivo. Trasformare i deficit in risorse. Cercare pepite d'oro in mezzo a queste sabbie mobili della vita. E sono anche ossessionata dal fatto che tutto è possibile. Paradossalmente, mio padre mi diceva spesso: “Puoi farcela”. È stato estremamente importante per me. Oggi parole come "Ce la farai" o "Sono orgogliosa di te" sono diventate la base della mia Fondazione.
Ho chiamato la Fondazione Imagine, immagina. Da bambina sognavo di poter vivere diversamente. Ogni sera. Andavo a dormire e dipingevo un mondo diverso nella mia immaginazione. Scrissi anche molti diari. Aspettavo tutto il giorno per scrivere quello che succedeva. Non potevo dirlo a nessuno.
Alcuni anni fa ho aperto questi diari, 12 anni di scritti. Li ho letti tutti in una volta, ad alta voce, in una notte con del vino e Jolka, una delle mie sorelle, accanto a me. Una sorta di terapia. Ricordo che prima di leggere avevo una paura enorme di riaprire la gabbia del mostro, che mi avrebbe riportato in quell'inferno.
Non c'era nessun mostro, quasi nessuna parola su mio padre. C'era una bambina, una bambina molto piccola, con un incredibile senso di colpa. Ovunque, su ogni pagina: "Ne sono responsabile", "Non ho nulla per le bambine", "E' tutta colpa mia". Ci riversavo emozioni, paure, non una parola sui fatti.
A casa non potevo piangere. Ogni segno di paura rendeva mio padre furioso. Andavo in posti in cui mi era permesso, ai funerali, in chiesa. Arriva anche a disegnare queste lacrime. Disegnavo molto in generale. E ballavo un sacco. Andavo a tutte le attività possibili e immaginabili, solo per non stare a casa. All'epoca era più facile, erano gratis, nessuno chiedeva il consenso dei genitori. E soprattutto, nessuno mi tratteneva in casa.
Le mie sorelle? Erano quattro. Sylwia di 3 anni più giovane, Jolka 5 anni, Marzena 7 anni e Agnieszka di 14 anni più giovane . Il problema maggiore lo ebbi con la nascita di Agnieszka. Avevo 14 anni e piansi per tutta la gravidanza perché pensavo di non potercela fare a crescere un'altra bambina.
Fu importante, però, che ci fossero. Ad esempio, il contatto. Ne compensammo la mancanza tra noi ragazze. Dormivamo nello stesso letto, negoziavamo quanti minuti ci saremmo massaggiate. Non ricordo un singolo abbraccio da parte di mia madre, ma almeno sono stata abbracciata dalle mie sorelle.
Anche se i miei cugini dicono che all'inizio andava tutto bene, che mia madre ci provava. Ricordano di essere stati invidiosi perché mio padre giocava con me sul tappeto. Non me li ricordo, ma forse quei primi anni furono importanti...
Mio padre mi diceva sempre che ce l'avrei fatta. Penso anche che si vantasse di me da qualche parte. La scuola e i buoni voti mi diedero molto. Sia in quei momenti che in seguito, riuscii ad entrare facilmente al college, aprire il mio ufficio contabile, trovare lavoro in una multinazionale. Sai, lui mi diede tanto, nonostante la violenza. Più di mia madre, non avevo alcun contatto con lei. A volte penso che gli sarebbe bastato ricevere supporto al momento giusto, se qualcuno avesse mostrato loro che le cose potevano andare diversamente. Se qualcuno li avesse aiutati ad affrontare il proprio passato.
Ricordo come mi sono ripromessa da piccola che questa sarebbe stata l'ultima generazione di questa mattanza. E questo non riguarda solo l'alcol, perché l'alcol può anche non esserci, ma rimane la patologia, alcuni meccanismi e schemi si ripetono, anche se apparentemente in modo diverso. Non c'è bisogno di colpire un bambino per lasciargli il segno.
Ho fatto molte terapie negli ultimi anni, mi guardo dentro, provo a ricostruire cosa mi ha aiutato. Ogni volta che ne trovo un pezzo lo porto alla Fondazione. Diamo competenze ai bambini e ai genitori. Diamo loro la nostra presenza.
Alla Fondazione lavoriamo in parallelo con bambini, giovani e adulti. A bambini e giovani insegniamo creatività, indipendenza, riconoscimento ed espressione delle emozioni, li rafforziamo e li incoraggiamo ad agire a beneficio della comunità, grazie a programmi come l'Accademia Emocji [Accademia delle emozioni], Światozmieniacze [Changemakers] e Destination immagination [Destinazione Immaginazione]. Per gli adulti, organizziamo soprattutto Szkoła dla Rodziców [Scuola per genitori], li aiutiamo a comunicare con i loro figli, a gestire i conflitti e le loro emozioni, insieme affrontiamo i cambiamenti. Ci sono storie come quella di un papà che ha veramente parlano per la prima volta con il proprio figlio di 8 anni, o un'adolescente che ci ringrazia che sua madre prende parte ai nostri seminari. Perché può vedere la differenza.
Sai, penso di avercela fatta. Ho creato il posto sicuro che sognavo da bambina. Non solo in senso fisico. Oggi capisco che un posto sicuro è soprattutto uno spazio dentro di noi, è la convinzione che tutto sia possibile. Le persone lasciano la Fondazione con la consapevolezza che le cose possano essere diverse.
Questo testo è stato pubblicato su Duży Format.
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