Vale comunque la pena provarci
EDUKABE
Lodz| Polonia
Mi ribellavo
Mi ribellavo fin da piccola. All'inizio lottavo per i più piccoli e i più deboli. Non sopportavo che qualcuno fosse stato giudicato ingiustamente, difendevo quella persona, cercavo di mostrare la verità.
Mi ribellavo ai diversi trattamenti tra ragazze e ragazzi. Non capivo perché le ragazze debbano avere condizioni peggiori o migliori dei ragazzi. Quello che mi irritava di più era seguire questo schema: quando un ragazzo inizia a inseguire, la ragazza scappa, di solito urlando. Pensavo: perché scappi? Voltati e digli che non vuoi che ti insegua. Poi è arrivata la questione del superare certi limiti: paccate sul sedere, tirate di reggiseni, mi infastidiva terribilmente. Alle elementari (n.d.r. nel sistema scolastico polacco la scuola primaria dura 8 anni), uno dei miei amici ha avuto uno schiaffo in faccia, è stato come una reazione automatica. Lui mi ha dato una paccata, io mi sono voltata e ho fatto lo stesso.
Mi ribellavo al modo di porsi degli insegnanti verso gli studenti. Ricordo alcuni insegnanti delle elementari di cui avevamo il terrore. Mi si accendeva sempre una lucetta dentro la testa: non dovrebbe essere così. Non sapevo come avrebbe dovuto essere, ma qualcosa stava crescendo dentro, avrei voluto andare li e dirgli che si sbagliavano, non potevano trattare le persone in quel modo. Ma la paura mi bloccava completamente. Paralisi totale, non un suono. Sapevo che se non era per la persona che volevo difendere, ci sarei stata io sotto torchio.
Quando ho finito la scuola elementare, la mia insegnante ha detto: “Barbara, vai ad una scuola semplice, non tentare cose complicate.” Sapeva che volevo andare al liceo medico, ma visti i miei voti scarsi me lo sconsigliava. Qualche tempo dopo sono andata al liceo medico con mio padre, ricordo di essermi fermata davanti al cancello e ho esitato fino all'ultimo momento a presentare i documenti. Mi sono girata, ho guardato mio padre e gli ho chiesto: “Sei sicuro?” Mi ha risposto che non l'avrei mai saputo se non ci avessi provato. “Se te la senti, vai.” E sono andata. Ho scoperto che non c'era la classe per infermieri che speravo. Quindi ho chiesto che altra possibilità c'era: specializzazione nella cura dei bambini. Stavo attraversando un momento di crisi perché nella mia famiglia aspettavamo un fratellino, più giovane di 15 anni. Questa cosa mi è caduta addosso come un macigno: “No, bambini ... non voglio i bambini, non mi piacciono.” Ho esitato, ma poi ho deciso di prenderla come viene. Quando è nato mio fratello si è capovolto tutto di 180 gradi. I miei genitori mi hanno detto: “Questo è Dominik.” Ho sentito un grande calore, wow, è qualcosa di straordinario. È così che è iniziata la mia avventura sociale. Il liceo che frequentavo si concentrava anche sull'aiutare gli altri, abbiamo avuto molti contatti con bambini in varie situazioni. Gli stage erano in asili nido, ma anche in orfanotrofi e dipartimenti di adozione. Mi ha dato molto. Era giunto il momento di decidere cosa fare dopo - continuare gli studi o meno. Alla fine, sono andata ad un corso per medicina d'urgenza.
Ho sempre pensato che le cose succedono per un motivo. Dopo la scuola, volevo fare domanda per il pronto soccorso. Il signore che ha preso i miei documenti ha detto:
- Comunque ... non sarai selezionata.
- Perché?
- Perché sei una donna.
- Quindi?
- Perché ... gravidanza, interruzioni sul lavoro, non puoi sollevare pesi ...
Per la prima volta ho sbattuto contro una tale discriminazione. Mia madre ha sempre creduto nell'uguaglianza. Nella mia famiglia mio padre e mia madre facevano di tutto, mia madre era in grado di riparare le prese e per noi era normale, mio padre cucinava, stirava, lavava, non c'era nulla di sorprendente in questo. Dopo quella conversazione, me ne sono andata incazzata per questa ingiustizia e mi sono iscritta a pedagogia.
Il cambiamento è iniziato con una porta bianca
Quando ero ancora una studentessa lavoravo, a volte in al nido, a volte all'asilo. Quest'ultimo mi ha fatto capire quanto sia facile snervarsi in un sistema cosi rigido, a cui non interessano le persone. In teoria il bambino è al primo posto, è il valore supremo, ma in pratica conta quello che finisce sui documenti e le carte accettano di tutto. Ricordo quanto ci stavo male e ne parlavo con un'amica dell'aula accanto. Il gruppo in cui lavoravo era separato dagli altri da una porta bianca. Spesso dico che il cambiamento è partito da questa porta bianca. A un certo punto la mia amica l'ha aperta e mi ha detto: “Barbara, non ce la faccio più, facciamo qualcosa.”
“Facciamolo!”, ho risposto. Abbiamo creato una fondazione. Questa per me è stata la svolta più importante - la decisione di uscire dal sistema, una decisione molto forte, molto movimentata. Per molto tempo nella mia famiglia ci sono state discussioni sul lavoro a tempo pieno, sui benefici e sulle sicurezze che ne derivano. Se questo lavoro è anche indeterminato allora hai un po' di stabilità. E io ho consciamente abbandonato tutto questo. Il momento in cui ti viene offerto un contratto a tempo indeterminato e dici "No, grazie" ti dà un senso di potere. Vai avanti.
E più avanti c'era la Fondazione EduKABE, seminari con bambini, adulti, ma soprattutto con i giovani. Parliamo molto. A proposito di cyberbullismo, educazione sessuale, noi stessi e il futuro. Cerco di mostrare loro una prospettiva diversa. Uso spesso un esercizietto con la carta, fatto di cinque passaggi. Ogni volta si piega la carta a metà e si strappa l'angolo in alto a destra. Dopo averlo fatto cinque volte, apriamo le pagine e confrontiamo i mosaici. Nessuno è mai uguale agli altri. Tutto dipende dalla posizione della carta, da come la ruotiamo, se la pieghiamo in orizzontale o in verticale. Ognuno ha la sua prospettiva. Forse i giovani, che a volte vengono da ambienti difficili, non possono ancora vedere certe cose in prospettiva, ma è possibile. Non tutti comprendono a fondo quest'esercizio, ma c'è sempre qualcuno per cui vedo che è iniziato un processo, che hanno capito. Qualcosa è cambiato nel loro sguardo, nel linguaggio del loro corpo. Magari torneranno con la mente a questo momento un giorno.
Un'altra porta bianca nella mia vita è il momento in cui, insieme a Mariusz, abbiamo deciso di avere un figlio, 11 anni fa. Quando è nata Zuzia molte cose si sono spente. Potevo guardare me stessa e gli altri da lontano, mi sono sentita come se un elisir di dolcezza si fosse riversato su di me. Come se qualcuno avesse fatto un incantesimo e Barbara avesse seppellito da un momento all'altro l'ascia di guerra. Ora posso dire che dalla ribellione, attraverso una fase di calma, è arrivata la comprensione e il focus sulla comunicazione, su altre persone. Non dobbiamo necessariamente combattere.
Dico alle persone che sono speciali
Ogni giorno dico a uomini e donne che sono speciali. Di recente siamo andati con mia figlia a una pista di pattinaggio. Sono arrivate due ragazzine sui roller. Una spigliata, capace di fare qualunque cosa, l'altra impacciata, poco sicura. All'improvviso si è girata verso di me e le ho detto: "Prova, un po' alla volta". "Grazie", ha risposto. “Non ringraziare, provaci. Se ci riesci, prova un po' di più, riprovaci”. Alla fine mi sono avvicinata di nuovo e le ho detto: “Non mollare. Se ti arrendi, non vedrai mai dove puoi arrivare. Vieni domani e riprova”. È quello che faccio, parlo con le persone. Qualcuno passa e dice: "Sei bellissima". E io aggiungo: "Dille che è anche intelligente". Una volta io e mia sorella siamo andate a mangiare una pizza e ci ha serviti una cameriera veramente gentile ed educata. Ho chiesto di parlare con il direttore. Gli ho detto di apprezzare questa persona perché è meravigliosa e anche se immagino che la sua paga non sia granché, dovrebbe almeno apprezzarla ogni giorno. La ragazza aveva le lacrime agli occhi. Queste sono le cose che amo fare.
Qualche giorno fa ho sentito una madre parlare con un bambino:
“Mamma, guarda, ci sono i piccioni. Ricordi come mi hanno attaccato?"
"Sì, perché vai sempre dove non devi."
Ho pensato che una frase può veramente cambiare il modo in cui vedi te stessa. Mi sono rivolta alla bambina:
“Sai cosa, penso che fossi un po' come un gatto per questi piccioni, e ai gatti piace andare dove vogliono. Immagino che tu sia stata come un gatto che va alla festa dei piccioni e loro non ti hanno riconosciuto."
Non so se la madre abbia capito. Ma la bambina ha annuito e sorriso. Forse ha capito. Un semplice messaggio "Vai sempre dove non dovresti!" dato in questa fase della vita può bloccarla per sempre. Ricorderà che deve attenersi al percorso che le è stato assegnato, solo in questo modo puoi andare dal punto A al punto B. E se sogna il punto C, per cui devi trovare una nuova strada?
Non mi fermo a pensare troppo alle mie reazioni. E' più che altro intuizione. Sento di dover dire qualcosa, quindi lo faccio. Magari non c'è veramente nulla da pensare. È uno spreco di vita, pensare: vado o non vado, dico o non dico. Non mi costa nulla e forse questa persona non incontrerà nessuno oggi che le dice: "Stai andando alla grande".
Morirai. E' un fatto
Cerco di prendermi cura delle persone a diversi livelli. Ad esempio, i due meravigliosi dipendenti della biblioteca locale, porto sempre loro alcuni libri, report, poster. E a volte mi raccomandano qualcosa da leggere. Recentemente uno di loro m'ha detto: "Ho qualcosa per te", e mi mette davanti un libro, Warsztaty umierania [Workshop sulla morte] di Katarzyna Boni. Mi sembrava un po' tetro, ma l'ho preso.
E' uno dei libri più belli che abbia letto. Dà speranza. Ne ho tratto almeno sei esercizi per lavorare con i giovani.
Ad esempio, parlando di una ciotola di riso. C'è una storia in questo libro: vai dai tuoi genitori che non vedi da molto tempo, sei molto legato a loro, scrivi, chiami, risolvi vari problemi da lontano. Quando vai ti danno il riso. Sai che il riso è importante per loro, è l'unica cosa che hanno e possono offrirti. E recentemente nel luogo in cui vivono c'è stato un guasto alla centrale nucleare. Lo mangi lo stesso il riso? O no? Ci sono molti dibattiti su questo tipo di dilemmi morali. Un altro esercizio: hai 10 carte, su ognuna scrivi una cosa importante nella tua vita. Poi inizi a leggere la storia di una donna che scopre di avere un tumore. Dopo ogni passaggio devi decidere quale di queste carte scartare, quale ha un valore minore. Alla fine, si scopre spesso che un buon lavoro, il denaro, un telefonino non sono così importanti come costruire relazioni, o stare con le persone.
Ho imparato molto sulla morte da mia figlia. Qualche tempo fa è morta mia nonna, poi mio nonno. Si parlava della loro morte a casa e ricordo che Zuzia ha fatto una domanda una sera: “Mamma, morirò anch'io?” A livello del torace ho sentito una fitta. Ho pensato a come potessi rispondere a questa domanda senza mentire, perché non l'abbiamo mai fatto. Ho detto: “Sì, un giorno sì.” “Oh”, ha risposto lei. Ho pensato che l'argomento fosse chiuso. Qualche giorno dopo, mi ha chiesto di nuovo: “Mamma, morirai anche tu?”
Queste sono state alcune delle conversazioni più belle e importanti. Ho dovuto affrontare le mie emozioni e le mie paure. E' stata Zuzia a far si che io domassi la morte. Per molto tempo ho pensato alla morte come a qualcosa di cui non si parla, non ci si pensa nemmeno, che tanto non esiste. Ma non è vero. Morirai. Questo è un fatto. Puoi averne paura, ma per cosa? Non hai molta influenza a riguardo. Ma puoi decidere di non perdere la tua vita, di ottenere il massimo da essa. Vivere lezioni preziose come saltare in una pozzanghera, correre nella rugiada del mattino, rotolare su un prato scosceso. Mai doma, senza seguire percorsi predefiniti. Capace di sentire il momento in cui sei veramente libera. A volte ci vuole un tramonto. A volte una lite. Una conversazione. Mangiare una buona mela riscaldata dal sole. È importante anche vivere in armonia con gli altri ogni giorno. Svegliarmi, guardare mio marito, mia figlia, sedermi in cucina con mia sorella, mio fratello, mia madre, mio cognato al calore della stufa. Senti che è fantastico, che è quello che voglio. Penso che non sia un caso che condividiamo la vita con certe persone. Io credo che si possa creare una bella famiglia dando spazio alla rabbia, alla tristezza e alla felicità. C'è spazio anche per i momenti tipo "saltare nelle pozzanghere". E andare alle 10 di sera sul balcone, se mia figlia ne ha voglia, perché le stelle sono particolarmente luminose quella sera. Anche se parti con la solita ansia - Metti le pantofole! Indossa la felpa! - lasci che esca. Quel momento è importante. E dirle che è possibile. Se potessi, lo direi alle persone 24 ore su 24: “Puoi farcela!” So che alcune persone hanno le cuffie alle orecchie per vari motivi e non sentono. Ma vale comunque la pena provarci.
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